Sunday, September 13, 2015

capitolo 2 first draft

La mattina del 19 novembre, il giorno dopo l'arrivo di Vladimir a Tiblisi, buona parte della città che conta aveva già letto il Wall Street Journal. Il quotidiano di New York aveva pubblicava un lungo pezzo, con tanto di foto, sulla storia di uno dei capi della resistenza armata al regime del dittatore siriano Assad. Nel giro di poche ore la notizia era diventata la più importante in tutto il paese: Tarkhan Batirashvili , un ex militare figlio di un georgiano e di madre kist, una popolazione di origine cecena che vive nella valle di Pankisi, si era definitivamente convertito alla religione della madre diventando in breve tempo convinto che occorresse difendere e promuovere l'Islam sunnita coll'uso della forza.

La Goergia è da secoli terra di guerrieri. L'orgoglio georgiano, la difesa della croce, anche della fede, dell'essere baluardo della cristianità in una zona di confine avevano sempre caratterizzato quella terra come un bastione dell'Occidente. Batirashvili aveva combattuto giovanissimo contro l'armata russa nella seconda guerra cecena tra l'estate del 1999 e la tarda primavera dell'anno successivo. Dopo esser sparito dalla circolazione per un po', s'era unito alle operazioni militari lanciate dal presidente Sakashvili all'ex occupante russo nell'estate del 2008 quando l'Ossezia meridionale e l'Abkhazia erano tornate ad affermare le proprie pretese indipendentiste con la forza grazie al sostegno di Mosca.

Nel 2011 l'ex sergente, deluso da come il suo esercito aveva condotto la resistenza all'invasione russa scomparve nel nulla. I suoi genitori, interpellati dal Wall Street Journal, avevano raccolto notizie frammentarie avute da alcuni cugini che vivevano in Giordania che avevano finalmente ammesso che nell'autunno di quell'anno Tarkhan si era trasferito in Siria dove in poco tempo, grazie alla sua esperienza militare, era diventato capo della fazione più violenta della resistenza siriana, una gruppo che iniziava a esser conosciuto perché ideologicamente con chiare ispirazioni religiose e pericolosissimi legami con reti terroristiche in tutto il Medio Oriente.

In un primo momento la sua brigata, composta per lo più di non siriani reduci principalmente dal conflitto in Libia dell'estate precedente, si erano unite alla brigata di combattenti Jaish al-Muhajireen wal-Ansar, brevemente affiliati all'armata che voleva stabilire uno stato islamico in Iraq e in tutto il levante. Il fondamentalismo non conosce ragione e presto le due fazioni da alleate diventano rivali. Il nemico del mio nemico è mio amico - e viceversa. Batirashvili guidava i suoi guerrieri col nome di Abu Omar al-Shishani - Un nome di battaglia comune ai convertiti e un cognome comunissimo nelle comunità cecene emigrate nel mondo arabo.

La notizia che un georgiano, un Batirashvili del villaggio di Birkiani con la sua lunga barba rossa, fosse a capo di un brigata di mujaideen per combattere una guerra lontano da casa aveva scioccato Tiblisi. In un paese dove le ferite inferte alla piena sovranità nazionale restavano ancora aperte, sapere che dei giovani patrioti, delusi dalla debolezza del proprio paese, avessero deciso di abbracciare cause lontane arrivando addirittura a trasformarsi in combattenti in nome di Allah, era come buttare del sale sopra le piaghe degli ultimi venti anni di conflitti armati nel Caucaso.

Non era però la prima volta che i georgiani dovevano confrontarsi con vicende di connazionali all'estero. Le gesta di Abu Omar al-Shishani aveva infatti suscitato lo stesso clamore dei due attentanti che tra maggio e giugno del 2013 avevano fatto 10 morti nel contingente georgiano in Afghanistan. Dal 2004 la Georgia, un paese che più volte aveva affermato d'esser pronto a divenire membro della NATO in chiave anti-Mosca, era presente sul teatro afgano con oltre 1500 militari parte di una missione di assistenza alla International Security Assistance Force, ISAF. I soldati georgiani erano stati dispiegati sia nella capitale Kabul che nei distretti di Nawzad e Musa Qala nella provincia meridionale dell'Helmand, la più pericolosa in assoluto sia per i combattimenti che per la lotta ai signori della droga.

La Georgia aveva in Afghanistan il più consistente dei contingenti dei paesi non NATO e aveva scelto di investire molto in quella missione con la speranza che il Consiglio atlantico apprezzasse la vicinanza all'Occidente premiando tanta generosità coll'ingresso nell'Alleanza contro le rimostranze sempre più prepotenti di Mosca. Come in passato, la Georgia, un po' come l'Albania, faceva comodo come argine a Oriente ma non come parte della famiglia dell'Occidente. Per non antagonizzare eccessivamente Mosca, il processo di adesione alla NATO era stato congelato sine die. Il pezzo del Wall Street Journal fece tornar in mente a Vladimir i pensieri che l'avevano accompagnato per un quarto di secolo tra i Balcani e il Caucaso.

La presenza georgiana in Afghanistan era già assurta agli onori della cronaca con la vicenda del sergente Giorgi Gigadze, scomparso in Helmand nel dicembre del 2012 e ritrovato morto con sul corpo evidenti segni di torture. Un evento tanto raro quanto misterioso, ancor più misterioso il fatto che nessuno avesse deciso di mantenere aperta l'inchiesta per capire il perché un sergente georgiano potesse rappresentare un nemico pericoloso, o un ostaggio prezioso, per i guerriglieri afgani. Le circostanze del rapimento e del ritrovamento del corpo non furono mai chiarite.

Vladimir era stato anche in Afghanistan per brevi periodi intorno al 2005. Se nascosta con una barba incolta e un turbante polveroso la sua faccia, come quella dei georgiani del resto, gli consentiva di infiltrarsi nelle comunità pashtun senza dare troppo nell'occhio. La sua missione era quella di tener d'occhio i traffici d'oppio una volta che questi lasciavano le regioni afgane del sud. Musa Qala era una zona che Vladimir conosceva bene: una zona pressoché desertica controllata dalla tribù degli Alizai dediti principalmente al florido traffico del papavero una pianta non autoctona introdotta nel paese verso la fine degli anni Settanta.

Nessuno di quelli che contavano un minimo in quella provincia poteva dichiararsi estraneo al commercio di tonnellate e tonnellate di materiale grezzo prodotto da decine di migliaia di contadini trattati come servi della gleba. Quel incredibile raccolto veniva raffinato in zona solo in minima parte e con una tecnologia datata, ereditata dai laboratori sovietici degli anni '80. Il grosso dei semi di papavero veniva trasportato dalle carovane dei baluci verso il Pakistan e l'Iran dove trovava la via dell'Occidente attraverso i porti franchi di Bandar Beheshti e Gwandar intrecciandosi coi traffici semi-legali delle mafie indiane e cinesi. I georgiani avevano la Kartuli mafia, una piovra potentissima, strutturata in rigide gerarchie e violentissima, temuta da quella russa fin dai tempi dell'URSS.

Quella del traffico dell'oppio afgano è un'operazione quasi perfetta, coordinata senza ricorso eccessivo alla tecnologia e basata prevalentemente sull'obbedienza delle catene di comando dei clan afgani e le complicatissime alleanze incrociate e variabili che da sempre rendevano quella parte dell'ex impero britannico impossibile da controllare, o espugnare, a chiunque. Per quanto la follia proibizionista avesse fatto spendere milioni di dollari nella ricognizione aerea, né i droni né i satelliti degli americani o degli inglesi riuscivano a distinguere un mulo che trasportava dello zafferano da uno carico di oppio e infatti, talebani o non talebani, ONU o non ONU, guerra alla droga o non guerra alla droga, la produzione di oppio in Afghanistan era rimasta stabile negli anni producendo il 90% del papavero necessario per lo stupefacente.

Vladimir non doveva interessarsi della fallimentare guerra alla droga, che in quegli anni, oltre che vittimizzare prevalentemente i contadini, rischiava di divenire una vera e propria guerra contro l'ambiente perché alle Nazioni Unite e alla Casa Bianca avevano deciso di esportare in Afghanistan la tecnica delle fumigazioni aeree che aveva avvelenato valli e fiumi in Colombia, Vladimir era in Afghanistan per indagare su alcuni sospetti relativi a presunte infiltrazioni criminali nelle truppe dell'ISAF e a un giro di corruzione legata proprio alla droga che era divenuta a tratti strutturale alla missione NATO. Troppo spesso infatti si verificavano 'incidenti' in cui venivano bombardati per errore obiettivi civili e, altrettanto troppo spesso, arrivava notizia della morte di militari occidentali in circostanze mai chiarite, proprio come quella del sergente Giorgi Gigadze.

Quando Vladimir aveva letto distrattamente del sergente gli erano tornati alla mente alcuni casi simili su cui aveva lavorato. Si trattava di vendette o regolamenti di conti che non avevano niente a che vedere con la missione di peacekeeping di cui facevano parte le vittime; eventi che, allo stesso tempo, non dovevano creare intralci alla nobile missione dei caschi blu. Dovevano essere indagate, dimostrate, individuati i responsabili e insabbiate. Nessuno dell'amministrazione civile non direttamente interessato doveva venirne a conoscenza e men che meno la stampa doveva dar risalto alla corruzione di certi "nostri ragazzi".

La tragica sorte del sergente Gigadze, gli attacchi ai militari georgiani nell'Helmand e la vicenda del jihadista georgiano di origini cecene gli avevano risvegliato ricordi che aveva cercato di seppellire nella parte più oscura della sua coscienza scossa per anni da tradimenti di ogni tipo e che non avrebbe più voluto frequentare. Per troppo tempo aveva obbedito a ordini che non condivideva e che gli erano sembrati creare le circostanza più distanti dalla possibile soluzione dei problemi o dispute che invece dovevano - volevano - andare a risolvere.

Negli ultimi anni, dopo aver preso micro-dosi di LSD quando era in California, si era dedicato alla meditazione per svuotare la mente da questo bagaglio ingombrante, l'equilibrio che aveva raggiunto era comunque molto precario. Esser invaso da ogni tipo di ricordi in un luogo che di per sé ne evocava già molti era un'esperienza difficile da gestire. Vladimir era a Tiblisi per quella che sperava fosse la sua ultima missione e il suo impegno principale era far passare il tempo senza che gli accadesse altro.

"Signor Ibramirovic, la signorina del negozio le ha lasciato un messaggio". Vladimir aveva scelto una pensione di quelle a condizione famigliare. Pochi clienti, atmosfera informale ed eccessivamente cordiale, buona cucina e, se non si stava attento, interminabili chiacchierate e bevute di vino casalingo fino all'alba. Certo il controllo era quasi maggiore che in un albergo internazionale, ma doveva dare quanto meno nell'occhio possibile. Aveva pensato di affittare un appartamento ma il suo russo non era più quello di una volta e col georgiano la sua lingua faceva a cazzotti. Qui nessuno si sarebbe troppo meravigliato che un giornalista eno-gastronomico volesse spender poco e gustare le specialità locali che iniziavano a esser rinomate anche in Europa o su internet.

"1830, Giorgi t'aspetta giù, seguilo senza troppe domande. Vestiti come ti pare". Puntualissimo Giorgi si presentò alla porta della pensione Belmon tutto rileccato. Avrà avuto 10 anni Giorgi, piccolo e coi capelli neri a spazzola, si muoveva scattante come se ripassasse mentalmente le mosse delle danze acrobatiche tradizionali che i ragazzini imparano fin dalle scuole elementari… "Vladimir? How are you? How are you? My name is George". Sembrava che il ragazzino si fosse preparato tutto il pomeriggio per quell'introduzione in inglese. "Nice to meet you Georgi. I'm fine, how about you?". "OK" disse il ragazzino e, con un sorriso di autocompiacimento, gli prese la mano orgogliosamente per uscire velocemente.

Georgi, col suo passo da ballerino, fece strada a Vladimir per vicoli strettissimi e bui stando attento a non rovinare i suoi pantaloni e scarpe nuove. Doveva compiere la sua missione nel minor tempo possibile perché sapeva che dove stavano andando ci sarebbe stato da aspettare e Samra si era raccomandata di portare Valdimir in negozio al massimo per le 1930. Salta e corri, in meno di 10 minuti, svicolando a destra e sinistra, arrivarono nel quartiere dove si trovano alcune ambasciate e dove, in un palazzo da poco rinnovato, Giorgi bussa con fermezza alla porta.

Dall'interno, una voce poco ospitale, dice che la porta è aperta. Il salone è pieno di gente che aspetta fumando e leggendo, a destra si sentono rumori strani per quella che sembra una casa. Giorgi senza preoccuparsi troppo di disturbare gli ospiti, trascina Vladimir in una stanza attrezzata a barberia. Vladimir capisce che non può opporsi, si siede e si abbandona alle sapiente mani del giovane barbiere, pieno di orecchini anche nel naso e tatuaggi che chissà cosa recitano in georgiano che, senza farsi troppi problemi, inizia a tagliare la lunga barba di Vladimir per poi passare ai capelli.

Vladimir era entrato in Georgia con un passaporto canadese, capelli e barba lunghi e tinti di castano e con lenti a contatto scure. Il barbiere taglia la barba con grande maestria lasciandone giusto una traccia come se fosse di due giorni. Poi si dedica ai capelli lasciandone poco più di un centimetro. Il taglio e lo sciampo riportano Vladimir a i suoi grigi. Senza lasciare a Vladimir il tempo per ringraziare o pagare, Giorgi dice "No pay. OK OK. Come come" e lo spinge fuori.

Vladimir di nuovo non oppone resistenza anche perché lo diverte la solerzia marziale del ragazzino. Immaginava che il piccolo Giorgi fosse pazzamente innamorato di Samra e che avrebbe fatto di tutto per farle piacere, anche trasformare un barbone in qualcosa di presentabile. Questa volta Giorgi è costretto a prendere vicoli ancora più stretti per arrivare d'un fiato in una stradina nascosta nella zona centrale dove si trovano i migliori negozi di Tiblisi. Non aveva l'orologio ma pensava che il barbiere avesse preso molto più del tempo a sua disposizione per il taglio.

Davanti alla porta di metallo nero opaco Giorgi bussò forte ma poi si ricordò che gli accordi erano altri e suonò un campanello a combinazione. Senza risposta la porta si aprì e un'ondata di profumo avvolse Giorgi e Vladimir. Giorgi ride e spinge Vladimir dentro. La giacca di velluto, i jeans scoloriti e gli anfibi stridono col grigio scuro e il nero e le luci violacee che arredano quel luogo dove angolo dopo angolo una musica elettronica li guida verso la luce.

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