Saturday, May 14, 2016

Adam and Evan

"Adam?" Vladimir si girò attratto dallo strano accento e non perché pensasse che qualcuno si stesse rivolgendo a lui.
"Adam, is that you?" 
"What?"
"It's Evan Appelbaum. Podgorica '99"

Erano in effetti anni che non si chiamava più Adam, ma sentir rammentare il Montenegro fece fatica a non sgranare gli occhi mentre la sua mente andava indietro nel tempo. "Evan", disse quasi sottovoce, e fissandolo negli occhi. "Evan, what the hell are you doing here? How've you been? I thought…" Già, pensava che fosse morto. Ucciso in un carcere della Serbia meridionale dopo che la polizia montenegrina l'aveva venduto a Belgrado a seguito di una retata in discoteca.

Anche Evan Appelbaum non si chiamava più così da molto tempo e no, non era morto quella notte di primavera a Podgorica. Dopo l'ennesima curva presa allegramente dal cellulare puzzolente dove lo avevano rinchiuso era riuscito a scappare dalla pattuglia di poliziotti che lo stava portando in caserma per arrestarlo per "comportamento immorale". I suoi carcerieri erano quattro panzoni mezzi ubriachi e solo uno aveva la pistola. Mentre la camionetta scassata era ferma a un semaforo rosso che non finiva mai, con una spallata aprì le porte posteriori e s'infilò in un vicolo per poi scomparire a casa di amici. Evan aveva sempre molti amici e tutti sempre pronti ad aiutarlo “no questions asked”. 

"I'm so glad to see you" e abbracciò Vladimir con uno di quegli abbracci da uomo vero, da rugbista neozelandese quale Evan diceva d'esser stato prima di diventare giornalista. Sicuramente era neozelandese, rugbista forse - non aveva un fisico imponente ma era alto e ben piazzato - ma sicuramente giornalista no. anche Adam non era il giornalista che in quei giorni diceva d'essere, ma nessun straniero è mai quel che dice d'esser in un posto di guerra o ai confini di un conflitto.

A dir la verità la guerra nella ex-Jugoslava non era mai arrivata in Montenegro e per questo la capitale era diventata un posto per rest-and-recreation - RnR in gergo - un po' per tutti. In effetti erano in molti a riposarsi nella capitale montenegrina dalle fatiche della guerra che in quegli anni era ormai arrivata fino in Kosovo. Ma anche la recreation non mancava. Specialmente la notte nelle decine di balere galleggianti sul fiume Morazza dove scorrevano fiumi di birra e i montenegrini cantavano le loro melodie mediorentaleggianti fino all'alba. Evan era poco più alto di Igor, intorno al metro e ottantacinque, ma dovunque andassero erano sempre i più bassi tra gli uomini e alti appena come le donne.

"What brings you here?" domandò Vladimir un po' imbarazzato dal volume alto della voce di Evan. 
"You'll never believe it" disse Evan abbassando la voce e non perché si fosse reso conto che all'amico desse noia esser in compagnia di qualcuno che eccedesse nell'entusiasmo dell'incontro. 
"It's you I'm here for".
Vladimir lo guardò aprendo gli occhi e fissandolo, piegò leggermente la testa come a chiedere minacciosamente "ma che stai dicendo?". 
"Yes, you."
"Cut the crap, Evan…"
"How could I lie to you. Why would I?"
"OK, shoot!"

Da quella notte di quindici anni fa, Evan aveva cambiato anche lui molte identità e zone d'azione tra i Balcani e l'Afghanistan. Confessò d'aver incrociato Vladimir più volte senza mai essersi avvicinato troppo o renderlo consapevole della sua presenza in alcun modo. L'aveva spiato. Si, Vladimir era sotto stretta osservazione di tutti gli alleati. Aveva girato troppo, aveva incontrato troppe persone, e molte di queste erano poi morte. Aveva visto molte cose, scoperto troppi intrighi, aveva concorso a tessere troppe trame. "Sapeva troppo". Andava controllato che quel sapere non fosse condiviso col nemico. O con dei falsi amici. 

Evan gli era stato assegnato come guardiano di quel sapere col mandato di agire velocemente nel caso Vladimir avesse ceduto. Evan era stato assegnato a quel compito in virtù dell'amicizia tra i due che era stata comunicata al quartier generale. Se si fossero dovuti ritrovare nello stesso luogo "per caso", Vladimir avrebbe immediatamente riconosciuto l'amico e collega e non si sarebbe meravigliato della coincidenza - proprio come non si era meravigliato in occasione di tutti gli incontri fortuiti, anche se quelli erano veramente casuali, che li avevano fatti diventare amici nei Balcani. Evan non si chiamava più Evan adesso, ma Miroslav Yablaievich, Miro per gli amici e Vladimir era un amico. 

"Wow" sospirò Vladimir col sangue che gli era salito alla testa. 
"Yes, wow. Sorry mate". Miro bisbigliò abbassando il campo. 
"Mate my ass! What the fuck does this mean?!?" sibilò Vladimir che non ci stava capendo nulla.

Se per tutti questi anni Miro l'aveva tenuto sotto controllo senza mai farglielo capire, anche in zone dove entrambi erano in costante pericolo di vita, perché proprio adesso gli svelatva questo segreto? Adesso che finalmente erano in un paese in pace?

"I couldn't take it any longer. I needed to tell you. I'm really very sorry". Disse Miro guardando i piedi di Vladimir.

"Carry on" disse Vladimir senza guardarlo negli occhi pronto a prenderlo a pugni anticipando pessime notizie.

Miro gli raccontò di quella volta a Chisinau nei primi anni 2000 nel centro commerciale dove avrebbe dovuto incontrare qualcuno che veniva dalla Transnistria e di come non ci fosse nulla da mangiare. Miro s'era accorto che al bar dove gli era stato dato appuntamento nel giro di poche ore erano cambiati tutti i dipendenti e anche il cibo era stato sostituito. Miro lo aveva fatto comprare tutto da due suoi uomini per sicurezza, perché pensava che fosse drogato. E infatti lo era. Di quelli della transnistria non ci si poteva fidare, neanche in campo neutro, e la capitale Moldava non era propriamente campo neutro. Vladimir era odiato dai russi fin dai tempi di Sarajevo, quando collaborava con Radio B92 di Belgrado per far arrivare in Europa notizie e informazioni di tutti i tipi sul conflitto jugoslavo. Avrebbero pagato una bella somma per averlo. E una grave intossicazione alimentare in un "centro commerciale" di Chisinau, cosa di per sé plausibilissima, andava urgentemente curata all'estero. 

Gli disse anche di quella volta a Kabul, al mercato centrale dove Vladimir era andato per farsi cucire una shawal kameez su misura per camuffarsi meglio in città dopo i mesi passati a est del paese, e il suo sarto aveva chiuso il giorno prima per un lutto famigliare. Miro aveva scoperto che il sarto l'aveva venduto ai Talebani che lo avrebbero fatto sparire nell'Helmand a dorso di cammello. Dovettero avvelenare una zia del sarto.

Miro gli raccontò anche di quella notte a Podgorica il giorno prima del suo arresto.
"What the hell are you talking about?!"
Sí anche quella notte passata insieme in Montenegro, disse Miro, non era frutto di un drunk sex ma della necessità di non farlo uscire quella sera perché alla houseboat dove erano stati invitati per un compleanno ci sarebbe stata un violenta rissa tra montenegrini e albanesi. Rissa che si sarebbe conclusa con un morto. Lui.

"You make me sick" disse Vladimir che non sapeva se fosse più difficile trattenere le lacrime o pugni.
"I'm sorry". 
Vladimir non aveva dubbi sulle donne, come non ne aveva Miro. Ma quella notte, forse dopo qualche birra di troppo e uno spinello in più del solito, erano rimasti nello stesso letto fino all'alba. In quelle settimane erano sempre insieme e affrontavano quotidianamente i pericoli più disparati per raccogliere informazioni dal fronte facendosi forza l'un l'altro. Per quanto non ci fosse la guerra in Montenegro, dappertutto c'erano agenti e spie che si riposavano e che cercavano di capire, studiandosi a distanza, cos'altro stessero facendo gli avversari e gli amici. Una tesa cordialità caratterizzava la città. 

Nell'estate del 1998, mentre a Roma si teneva la conferenza diplomatica che avrebbe adottato lo Statuto della Corte penale internazionale, in Kosovo si sparava contro i civili. La ex Jugoslavia era stata sospesa dalle Nazioni unite e messa sotto tutela della giurisdizione del Tribunale ad hoc dell'Aia. Belgrado aveva lanciato una campagna, l'ennesima, contro i cosiddetti “terroristi” kosovari.  Solo che quei terroristi erano organizzati in un esercito vero e proprio, il Kosovo Liberation Army, o UCK in albanese, che veniva armato dalla diaspora kosova che raccoglieva soldi e armi tra Chicago e il Bronx e li faceva arrivare in Kosovo attraverso l'Albania.

Non tutta la diaspora kosovara riconosceva un capo solo. In fin dei conti la resistenza kosovara di Pristina si era caratterizzata per decenni come dissidenza e non collaborazione non-violenta. Il dissidente e prigioniero politico Adem Demaci, era chiamato il Nelson Mandela kosovaro; il leader storico delle istituzioni parallele kosovare, mai riconosciute da Belgrado, Ibrahim Rugova, era un intellettuale più vicino a Gandhi che alla resistenza sui monti. Demaci si era sempre più isolato, Rugova si era “venduto” ai serbi nella speranza che si arrivasse a un armistizio. L'UCK si era via via affermato come l'unico baluardo di resistenza alle operazioni della polizia serba e dell'esercito jugoslavo.

Nel giro di qualche mese, un gruppo di trentenni ne prese il comando e, dalla Svizzera, iniziò a dirigere le operazioni professionalmente grazie ai soldi e le armi inviati dagli Stati uniti. Da Berna coordinava il tutto Hashim Tachi sul campo Ramush Haradinai. 

Vladimir e Miro, e altri agenti europei, dovevano far sì che il Montenegro non fosse coinvolto nel conflitto. I soldi per il Kosovo potevano passare, e in effetti grazie alla facilità con cui si corrompeva chiunque, di dollari e marchi tedeschi ne passavano in quantità ma, a parte le mazzette, in Montenegro non doveva restar altro. I montenegrini non avevano particolare interesse, o convenienza, a separarsi dalla Serbia, ma nel sud del Montenegro vive una comunità albanese che se debitamente attrezzata non ci avrebbe pensato due volte a invocare la volontà di unirsi ai kosovari, albanesi macedoni e a Tirana per poter finalmente raggiungere il sogno della “Grande Albania”. OK per il rest and recreation con tanti soldi, alcol e droghe, ma non armare la resistenza.

A queste operazioni anti-militari se ne aggiunse uno di tipo diverso, inusuale per tipi come loro. A entrambi infatti era stato chiesto di procurare visti d'ingresso verso la Federazione serbo-montenegrina per una serie di investigatori che avrebbero dovuto raccogliere le prove dei crimini contro l'umanità commessi dall'esercito serbo in Kosovo. L'ordine era arrivato per vie traverse da emissari della Commissione europea dopo che anche la Nato aveva dato il suo beneplacito. Entrare legalmente nella ex-Jugoslavia attraverso la Serbia era molto rischioso, arrivare a Pristina entrando dal Montenegro era molto meno complicato. Non solo tutti erano più facilmente corrompibili e con poco, ma la struttura governativa non esisteva praticamente più. Nel giro di pochi giorni si erano procurati un contatto al ministero degli esteri e dell'interno per garantire che, a strettissimo giro di posta, quei visti potessero esser stampati su passaporti consegnati durante la pausa pranzo e ripresi all'ora del caffè pomeridiano. 

Dopo aver preparato la via, nessuno dei due era più direttamente coinvolto, le operazioni erano svolte da un italiano che si presentò come un ricercatore consulente del Consiglio d'Europa, un certo Marco, o almeno così si faceva chiamare - gli italiani e i russi erano gli unici che non avevano bisogno del visto per entrare nella ex-Juvoslavia in quegli anni - che si recava prima al ministero degli interni e poi, stranamente, anche al "bar" di quello degli esteri, una stanzetta attigua al comando di polizia, per farsi mettere di nascosto i visti sui passaporti tedeschi, britannici e francesi che aveva nella tasca dei pantaloni. Una volta questo Marco non trovò il solito funzionario all'appuntamento e ci mancò poco che non lo fermassero. Era il giorno dopo la notte tra Adam e Evan. Marco, che non fu salutato in tedesco come al solito, e che ormai capiva le parole chiave della lingua locale, specie quando si parlava di lui, capita la mala parata riuscì a farsi suonare il telefonino e lasciò di corsa il ministero degli interni perché chiamato da un'emergenza. I postumi della notte tra Adam e Evan avevano quasi compromesso la missione perché il funzionario non era stato pagato per tempo. Marco stava per esser arrestato, e farlo uscire sarebbe costato molti soldi, se non un vero e proprio incidente diplomatico che, con tutto quello che dovevano fare per controllare i fiumi di soldi verso il Kosovo, era l'ultima cosa che gli serviva.

I postumi di quella notte a Podgorica erano ancora nell'aria quel pomeriggio nel bar Nede di Tiblisi. E l'aria si faceva sempre più pesa. Vladimir pensava di aver finalmente trovato un amico a Podgorica, qualcuno di cui potersi fidare e a cui confidarsi. E in effetti aveva pensato bene. Miro lo aveva sempre ascoltato con attenzione tenendosi per sé analisi, dubbi, commenti e critiche circa le operazioni che dovevano portare a termine e non l'aveva mai tradito. Mai. Lo aveva osservato e protetto a distanza per tutti questi anni. Aveva dovuto farlo. Gli occhi pieni di lacrime lasciavano capire che per Miro non si era trattato solo di un compito assegnatogli dall'agenzia. C'era anche qualcos'altro.

"So why are you here now?" chiese Vladimir che nel frattempo aveva voltato le spalle a Miro. Il silenzio lo fece girare e Miro non c'era più. Sul suo sgabello il biglietto da visita dell'hotel Intercontinental con su scritto a penna "Miro Yablaievich, room 911, dinner Friday 9pm". Vladimir finì la sua birra, pagò e uscì. Aveva bisogno d'aria e a Tiblisi il tempo era piacevole, l'atmosfera rilassata. Una Tiblisi così calma, pacifica e soprappensiero non l'aveva mai vissuta. Nelle sue puntate in Georgia, nelle lunghe attese prima che si presentasse il contatto o prima che scattasse l'ora x per lasciare le istruzioni o i soldi per alcuni degli operativi locali, aveva sempre pensato di come si sarebbe sentito sotto quel cielo terso se invece di dover scappare subito dopo l'incontro avesse potuto sedersi al sole e leggere un libro bevendo acqua gassata fresca. Quel giorno il cielo era azzurro intenso e il sole splendente. Di acque ce n'erano per tutti i gusti, anche di importazione, ma i suoi pensieri erano uno più cupo dell'altro. Miro, anzi Evan, era stata l'unica distrazione in 20 anni disciplinati. Autodisciplinati. Anni in cui aveva dovuto mettere in pratica tutto quello che aveva appreso in accademia ma anche tutti i trucchi imparati dai disperati con cui aveva avuto a che fare nelle guerre georgiane e in Bosnia o in Afghanistan. Mai fidarsi. Ascoltare sempre, mai parlare. Prendere appunti mentalmente. Imparare numeri e nomi a memoria. Mimare gesti locali e raffinare la pronuncia di parole chiave in decine di lingue. Mai parlare di sé. Assorbire tutto ma solo fino al momento dell'invio del contatto con la base poi andare oltre. Non riflettere. Non dubitare. Non criticare e, soprattutto, non lasciarsi coinvolgere. 


Il bar Nede non era lontano dal negozio dove lavorava Samra. Vladimir era ancora scosso dall'incontro ma decise comunque di passare da lei per raccontarle quello che gli era successo. Adom era un negozio di moda d'avanguardia. Era ricavato da una palazzina semidistrutta, forse dalla guerra forse dall'incuria. Era di mattoni a vista con delle grandi porte con colonne e stipiti in marmo trasformate in vetrine con vetri molto scuri. Il nome del negozio era scritto con un neon a caratteri maiuscoli – ADOM - 

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