Sunday, September 13, 2015

capitolo 2 first draft

La mattina del 19 novembre, il giorno dopo l'arrivo di Vladimir a Tiblisi, buona parte della città che conta aveva già letto il Wall Street Journal. Il quotidiano di New York aveva pubblicava un lungo pezzo, con tanto di foto, sulla storia di uno dei capi della resistenza armata al regime del dittatore siriano Assad. Nel giro di poche ore la notizia era diventata la più importante in tutto il paese: Tarkhan Batirashvili , un ex militare figlio di un georgiano e di madre kist, una popolazione di origine cecena che vive nella valle di Pankisi, si era definitivamente convertito alla religione della madre diventando in breve tempo convinto che occorresse difendere e promuovere l'Islam sunnita coll'uso della forza.

La Goergia è da secoli terra di guerrieri. L'orgoglio georgiano, la difesa della croce, anche della fede, dell'essere baluardo della cristianità in una zona di confine avevano sempre caratterizzato quella terra come un bastione dell'Occidente. Batirashvili aveva combattuto giovanissimo contro l'armata russa nella seconda guerra cecena tra l'estate del 1999 e la tarda primavera dell'anno successivo. Dopo esser sparito dalla circolazione per un po', s'era unito alle operazioni militari lanciate dal presidente Sakashvili all'ex occupante russo nell'estate del 2008 quando l'Ossezia meridionale e l'Abkhazia erano tornate ad affermare le proprie pretese indipendentiste con la forza grazie al sostegno di Mosca.

Nel 2011 l'ex sergente, deluso da come il suo esercito aveva condotto la resistenza all'invasione russa scomparve nel nulla. I suoi genitori, interpellati dal Wall Street Journal, avevano raccolto notizie frammentarie avute da alcuni cugini che vivevano in Giordania che avevano finalmente ammesso che nell'autunno di quell'anno Tarkhan si era trasferito in Siria dove in poco tempo, grazie alla sua esperienza militare, era diventato capo della fazione più violenta della resistenza siriana, una gruppo che iniziava a esser conosciuto perché ideologicamente con chiare ispirazioni religiose e pericolosissimi legami con reti terroristiche in tutto il Medio Oriente.

In un primo momento la sua brigata, composta per lo più di non siriani reduci principalmente dal conflitto in Libia dell'estate precedente, si erano unite alla brigata di combattenti Jaish al-Muhajireen wal-Ansar, brevemente affiliati all'armata che voleva stabilire uno stato islamico in Iraq e in tutto il levante. Il fondamentalismo non conosce ragione e presto le due fazioni da alleate diventano rivali. Il nemico del mio nemico è mio amico - e viceversa. Batirashvili guidava i suoi guerrieri col nome di Abu Omar al-Shishani - Un nome di battaglia comune ai convertiti e un cognome comunissimo nelle comunità cecene emigrate nel mondo arabo.

La notizia che un georgiano, un Batirashvili del villaggio di Birkiani con la sua lunga barba rossa, fosse a capo di un brigata di mujaideen per combattere una guerra lontano da casa aveva scioccato Tiblisi. In un paese dove le ferite inferte alla piena sovranità nazionale restavano ancora aperte, sapere che dei giovani patrioti, delusi dalla debolezza del proprio paese, avessero deciso di abbracciare cause lontane arrivando addirittura a trasformarsi in combattenti in nome di Allah, era come buttare del sale sopra le piaghe degli ultimi venti anni di conflitti armati nel Caucaso.

Non era però la prima volta che i georgiani dovevano confrontarsi con vicende di connazionali all'estero. Le gesta di Abu Omar al-Shishani aveva infatti suscitato lo stesso clamore dei due attentanti che tra maggio e giugno del 2013 avevano fatto 10 morti nel contingente georgiano in Afghanistan. Dal 2004 la Georgia, un paese che più volte aveva affermato d'esser pronto a divenire membro della NATO in chiave anti-Mosca, era presente sul teatro afgano con oltre 1500 militari parte di una missione di assistenza alla International Security Assistance Force, ISAF. I soldati georgiani erano stati dispiegati sia nella capitale Kabul che nei distretti di Nawzad e Musa Qala nella provincia meridionale dell'Helmand, la più pericolosa in assoluto sia per i combattimenti che per la lotta ai signori della droga.

La Georgia aveva in Afghanistan il più consistente dei contingenti dei paesi non NATO e aveva scelto di investire molto in quella missione con la speranza che il Consiglio atlantico apprezzasse la vicinanza all'Occidente premiando tanta generosità coll'ingresso nell'Alleanza contro le rimostranze sempre più prepotenti di Mosca. Come in passato, la Georgia, un po' come l'Albania, faceva comodo come argine a Oriente ma non come parte della famiglia dell'Occidente. Per non antagonizzare eccessivamente Mosca, il processo di adesione alla NATO era stato congelato sine die. Il pezzo del Wall Street Journal fece tornar in mente a Vladimir i pensieri che l'avevano accompagnato per un quarto di secolo tra i Balcani e il Caucaso.

La presenza georgiana in Afghanistan era già assurta agli onori della cronaca con la vicenda del sergente Giorgi Gigadze, scomparso in Helmand nel dicembre del 2012 e ritrovato morto con sul corpo evidenti segni di torture. Un evento tanto raro quanto misterioso, ancor più misterioso il fatto che nessuno avesse deciso di mantenere aperta l'inchiesta per capire il perché un sergente georgiano potesse rappresentare un nemico pericoloso, o un ostaggio prezioso, per i guerriglieri afgani. Le circostanze del rapimento e del ritrovamento del corpo non furono mai chiarite.

Vladimir era stato anche in Afghanistan per brevi periodi intorno al 2005. Se nascosta con una barba incolta e un turbante polveroso la sua faccia, come quella dei georgiani del resto, gli consentiva di infiltrarsi nelle comunità pashtun senza dare troppo nell'occhio. La sua missione era quella di tener d'occhio i traffici d'oppio una volta che questi lasciavano le regioni afgane del sud. Musa Qala era una zona che Vladimir conosceva bene: una zona pressoché desertica controllata dalla tribù degli Alizai dediti principalmente al florido traffico del papavero una pianta non autoctona introdotta nel paese verso la fine degli anni Settanta.

Nessuno di quelli che contavano un minimo in quella provincia poteva dichiararsi estraneo al commercio di tonnellate e tonnellate di materiale grezzo prodotto da decine di migliaia di contadini trattati come servi della gleba. Quel incredibile raccolto veniva raffinato in zona solo in minima parte e con una tecnologia datata, ereditata dai laboratori sovietici degli anni '80. Il grosso dei semi di papavero veniva trasportato dalle carovane dei baluci verso il Pakistan e l'Iran dove trovava la via dell'Occidente attraverso i porti franchi di Bandar Beheshti e Gwandar intrecciandosi coi traffici semi-legali delle mafie indiane e cinesi. I georgiani avevano la Kartuli mafia, una piovra potentissima, strutturata in rigide gerarchie e violentissima, temuta da quella russa fin dai tempi dell'URSS.

Quella del traffico dell'oppio afgano è un'operazione quasi perfetta, coordinata senza ricorso eccessivo alla tecnologia e basata prevalentemente sull'obbedienza delle catene di comando dei clan afgani e le complicatissime alleanze incrociate e variabili che da sempre rendevano quella parte dell'ex impero britannico impossibile da controllare, o espugnare, a chiunque. Per quanto la follia proibizionista avesse fatto spendere milioni di dollari nella ricognizione aerea, né i droni né i satelliti degli americani o degli inglesi riuscivano a distinguere un mulo che trasportava dello zafferano da uno carico di oppio e infatti, talebani o non talebani, ONU o non ONU, guerra alla droga o non guerra alla droga, la produzione di oppio in Afghanistan era rimasta stabile negli anni producendo il 90% del papavero necessario per lo stupefacente.

Vladimir non doveva interessarsi della fallimentare guerra alla droga, che in quegli anni, oltre che vittimizzare prevalentemente i contadini, rischiava di divenire una vera e propria guerra contro l'ambiente perché alle Nazioni Unite e alla Casa Bianca avevano deciso di esportare in Afghanistan la tecnica delle fumigazioni aeree che aveva avvelenato valli e fiumi in Colombia, Vladimir era in Afghanistan per indagare su alcuni sospetti relativi a presunte infiltrazioni criminali nelle truppe dell'ISAF e a un giro di corruzione legata proprio alla droga che era divenuta a tratti strutturale alla missione NATO. Troppo spesso infatti si verificavano 'incidenti' in cui venivano bombardati per errore obiettivi civili e, altrettanto troppo spesso, arrivava notizia della morte di militari occidentali in circostanze mai chiarite, proprio come quella del sergente Giorgi Gigadze.

Quando Vladimir aveva letto distrattamente del sergente gli erano tornati alla mente alcuni casi simili su cui aveva lavorato. Si trattava di vendette o regolamenti di conti che non avevano niente a che vedere con la missione di peacekeeping di cui facevano parte le vittime; eventi che, allo stesso tempo, non dovevano creare intralci alla nobile missione dei caschi blu. Dovevano essere indagate, dimostrate, individuati i responsabili e insabbiate. Nessuno dell'amministrazione civile non direttamente interessato doveva venirne a conoscenza e men che meno la stampa doveva dar risalto alla corruzione di certi "nostri ragazzi".

La tragica sorte del sergente Gigadze, gli attacchi ai militari georgiani nell'Helmand e la vicenda del jihadista georgiano di origini cecene gli avevano risvegliato ricordi che aveva cercato di seppellire nella parte più oscura della sua coscienza scossa per anni da tradimenti di ogni tipo e che non avrebbe più voluto frequentare. Per troppo tempo aveva obbedito a ordini che non condivideva e che gli erano sembrati creare le circostanza più distanti dalla possibile soluzione dei problemi o dispute che invece dovevano - volevano - andare a risolvere.

Negli ultimi anni, dopo aver preso micro-dosi di LSD quando era in California, si era dedicato alla meditazione per svuotare la mente da questo bagaglio ingombrante, l'equilibrio che aveva raggiunto era comunque molto precario. Esser invaso da ogni tipo di ricordi in un luogo che di per sé ne evocava già molti era un'esperienza difficile da gestire. Vladimir era a Tiblisi per quella che sperava fosse la sua ultima missione e il suo impegno principale era far passare il tempo senza che gli accadesse altro.

"Signor Ibramirovic, la signorina del negozio le ha lasciato un messaggio". Vladimir aveva scelto una pensione di quelle a condizione famigliare. Pochi clienti, atmosfera informale ed eccessivamente cordiale, buona cucina e, se non si stava attento, interminabili chiacchierate e bevute di vino casalingo fino all'alba. Certo il controllo era quasi maggiore che in un albergo internazionale, ma doveva dare quanto meno nell'occhio possibile. Aveva pensato di affittare un appartamento ma il suo russo non era più quello di una volta e col georgiano la sua lingua faceva a cazzotti. Qui nessuno si sarebbe troppo meravigliato che un giornalista eno-gastronomico volesse spender poco e gustare le specialità locali che iniziavano a esser rinomate anche in Europa o su internet.

"1830, Giorgi t'aspetta giù, seguilo senza troppe domande. Vestiti come ti pare". Puntualissimo Giorgi si presentò alla porta della pensione Belmon tutto rileccato. Avrà avuto 10 anni Giorgi, piccolo e coi capelli neri a spazzola, si muoveva scattante come se ripassasse mentalmente le mosse delle danze acrobatiche tradizionali che i ragazzini imparano fin dalle scuole elementari… "Vladimir? How are you? How are you? My name is George". Sembrava che il ragazzino si fosse preparato tutto il pomeriggio per quell'introduzione in inglese. "Nice to meet you Georgi. I'm fine, how about you?". "OK" disse il ragazzino e, con un sorriso di autocompiacimento, gli prese la mano orgogliosamente per uscire velocemente.

Georgi, col suo passo da ballerino, fece strada a Vladimir per vicoli strettissimi e bui stando attento a non rovinare i suoi pantaloni e scarpe nuove. Doveva compiere la sua missione nel minor tempo possibile perché sapeva che dove stavano andando ci sarebbe stato da aspettare e Samra si era raccomandata di portare Valdimir in negozio al massimo per le 1930. Salta e corri, in meno di 10 minuti, svicolando a destra e sinistra, arrivarono nel quartiere dove si trovano alcune ambasciate e dove, in un palazzo da poco rinnovato, Giorgi bussa con fermezza alla porta.

Dall'interno, una voce poco ospitale, dice che la porta è aperta. Il salone è pieno di gente che aspetta fumando e leggendo, a destra si sentono rumori strani per quella che sembra una casa. Giorgi senza preoccuparsi troppo di disturbare gli ospiti, trascina Vladimir in una stanza attrezzata a barberia. Vladimir capisce che non può opporsi, si siede e si abbandona alle sapiente mani del giovane barbiere, pieno di orecchini anche nel naso e tatuaggi che chissà cosa recitano in georgiano che, senza farsi troppi problemi, inizia a tagliare la lunga barba di Vladimir per poi passare ai capelli.

Vladimir era entrato in Georgia con un passaporto canadese, capelli e barba lunghi e tinti di castano e con lenti a contatto scure. Il barbiere taglia la barba con grande maestria lasciandone giusto una traccia come se fosse di due giorni. Poi si dedica ai capelli lasciandone poco più di un centimetro. Il taglio e lo sciampo riportano Vladimir a i suoi grigi. Senza lasciare a Vladimir il tempo per ringraziare o pagare, Giorgi dice "No pay. OK OK. Come come" e lo spinge fuori.

Vladimir di nuovo non oppone resistenza anche perché lo diverte la solerzia marziale del ragazzino. Immaginava che il piccolo Giorgi fosse pazzamente innamorato di Samra e che avrebbe fatto di tutto per farle piacere, anche trasformare un barbone in qualcosa di presentabile. Questa volta Giorgi è costretto a prendere vicoli ancora più stretti per arrivare d'un fiato in una stradina nascosta nella zona centrale dove si trovano i migliori negozi di Tiblisi. Non aveva l'orologio ma pensava che il barbiere avesse preso molto più del tempo a sua disposizione per il taglio.

Davanti alla porta di metallo nero opaco Giorgi bussò forte ma poi si ricordò che gli accordi erano altri e suonò un campanello a combinazione. Senza risposta la porta si aprì e un'ondata di profumo avvolse Giorgi e Vladimir. Giorgi ride e spinge Vladimir dentro. La giacca di velluto, i jeans scoloriti e gli anfibi stridono col grigio scuro e il nero e le luci violacee che arredano quel luogo dove angolo dopo angolo una musica elettronica li guida verso la luce.

Capitolo 1 first draft

Tiblisi non era mai stata così calda in ottobre. La gente sedeva ai caffè senza il cappotto, i ragazzi uscivano da scuola correndo in calzoncini corti e le ragazze andavano in giro con gonne sempre più corte e tacchi sempre più a spillo. Le strade erano bloccate da un ingorgo infinito, insolito per quell'ora del giorno. O così almeno pareva a Vladimir Ibramirov mentre s'incamminava verso la parte vecchia della città alla ricerca d'un posto tranquillo da cui poter osservare lo scorrere pacifico del fiume Kura.

L'ultima volta a Tiblisi c'era stato di passaggio nell'estate del 2000, ma la Tiblisi che aveva dentro, nel cuore e nelle cicatrici, era quella della guerra di 20 anni prima, quando si chiamava Igor Phrotas ed era stato mandato nel Caucaso per seguire da lontano Zviad Gamsakhurdia.

Quel che doveva essere un aiuto del "mondo libero" alla costruzione di una Georgia democratica dopo l'indipendenza dall'Unione sovietica si rivelò un fondamentale aiuto al ri-insediamento della vecchia guardia post-sovietica a Tiblisi e in tutte le altre repubbliche resesi indipendenti.

Da studente di lingua russa a Oxford, Vladimir aveva scoperto il musicista e poeta georgiano Merab Kostava che nel 1977, per la sua vicinanza politica col dissidente Gamsakhurdia, era stato arrestato e spedito in Siberia da un ambizioso Segretario del partito comunista georgiano: Eduard Shevardnaze.

Le parole e le melodie di Kostava lo avevano sempre affascinato e commosso e fatto appassionare al Caucaso. Quando viveva negli Stati uniti aveva imparato a definire i bianchi con l'espressione politicamente corretta "caucasici" e, una volta arrivato nel Caucaso, capì perché: con la sua centenaria storia di guerre, violenze odii, miti, leggende e intrighi transnazionali quelle valli racchiudevano tutto l'Occidente.

Dappertutto, ma in Georgia in modo particolare, facce, suoni e pietre raccontavano la storia di chi era pronto a immolarsi per vivere finalmente libero. Caucasian voleva dire uomo libero.

Da anni Vladimir viveva col pensiero di esser stato complice di un grande disegno contrario al motivo per cui era stato inviato in quella regione. Quello stesso Shevardnaze, che scientificamente aveva scalato la gerarchia sovietica fino ad arrivare a esser il ministro degli esteri di Mikhail Gorbaciov divenendo l'ambasciatore della glasnost e della perestrojka nel mondo, riuscì a far cambiare molte cose nella sua Georgia perché strutturalmente non cambiasse quasi niente. Grazie ai suoi trascorsi di capo della diplomazia sovietica negli anni finali della Guerra fredda, Shevardnaze aveva messo insieme una complicatissima rete di sostegni e trappole incrociate per creare il "pericolo Gamsakhurdia" che non poteva che esser gestito che con la forza e i tipi metodi oscuri dello stato di polizia.

Tra il 1990 e il 1993 Vladimir aveva passato settimane in Abkhazia, tra Sokumi e il fiume Kodori, sconfinando poi in Cecenia, per tallonare gli uomini di Gamsakhurdia che cercavano rifugio tra i sostenitori di Džokhar Musaevič Dudaev a Urus-Martan. La sua missione era quella di informare il quartier generale sui movimenti indipendentisti anti-Mosca che stavano organizzandosi a nord e sud del Caucaso all'indomani della dissoluzione dell'Unione sovietica. Vista l'importanza geo-strategica di quei monti, il "mondo libero" non voleva trovarsi di fronte a una regione troppo libera e, quindi, troppo instabile - il vero terrore per l'Occidente.

Occorreva osservare da vicino gli intricatissimi intrecci di alleanze incrociate tra quelli che, insoddisfatti della dissoluzione dell'URSS, si stavano ribellando tutti insieme alla nuova Mosca di Yeltsin. Alleanze dove, ancor di più che durante la Guerra fredda, il nemico del mio nemico diventava mio amico, anche se solo per qualche mese prima di cambiare repentinamente idea e vendersi o al migliore offerente o al peggior ricattatore.

Grazie a quella sua quotidianità con le lotte per la libertà, gli fu presto chiaro quale fosse la trama che una mano esterna con potenti alleati in giro per il mondo stesse tessendo ai danni delle aspirazione di milioni di persone che nel Caucaso volevano vivere a casa propria una vita libera, nella propria lingua e con le proprie tradizioni.

Quando all'inizio del 1994 fu richiamato in Europa perché al quartier generale si accorsero che stava divenendo troppo prossimo alle lusinghe rivoluzionarie, Vladimir capì che se non avesse obbedito immediatamente non avrebbe più abbandonato quelle terre divenendone prigioniero. Capì che ci sarebbe rimasto, ma per sempre, proprio come le centinaia di amici che aveva incontrato durante la sua permanenza sulle spiagge sassose di Kelakhuri sul Mar nero, dove si risposavano dopo le notti passate in giro sui monti abkazi, oppure a Girevi nelle valli del fiume Alazani, vicino al confine colla Russia, quando cercavano rifugio nei resti della vecchia fortezza abbandonata per fuggire alla Guarda nazionale georgiana che si azzardava a inseguire gli insorgenti dopo averli messi in fuga.

Camminando verso la città vecchia in quel tiepido ottobre, si accorse che in 20 anni la Tiblisi che lo circondava era cambiata radicalmente. Tutta la Georgia, tutto il Caucaso, erano cambiati radicalmente. Almeno in superficie. Ed era proprio della superficie che questa volta doveva interessarsi. Niente più intrecci, intrighi, depistaggi o vita sui monti. Questa volta doveva aspettare un contatto per uno scambio e poi tornare definitivamente al quartier generale.

"Gaspadin Vladimir Ibramirovich?"
"Da"
"Zdravstvuyte, menya zovut Nino Gungadze"
"Bylo priyatno s vami poznakomit’sya"
"Mi avevano detto che parlassi russo ma non pensavo così"
"didi madloba. Anche lei"

Mora con i capelli lunghi, alta, con una voce profonda, Nino Gungadze non era vestita come le altre ragazze georgiane.

L'ultima volta che Vladimir aveva visto Nino lei aveva cinque anni, era bionda e si chiamava Samra Iretbegovich. Erano entrambi sfollati a Potgodirica dopo una lunga fuga verso il Montenegro attraverso i boschi della Bosnia meridionale. Samra era rimasta orfana all'inizio della guerra iugoslava e viveva con la famiglia della cugina ungherese della Vojvodina Elena Futak, o Futog come si dovettero chiamare dopo che la polizia serba iniziò le persecuzioni.

Vladimir, all'epoca Igor, aveva conosciuto Elena a Sarajevo durante l'assedio. Era in Bosnia come giornalista ed Elena, che parlava inglese, lo aiutava come traduttrice. Arrivata in città da poco, grazie ai cugini, aveva fatto subito amicizia cogli studenti universitari che l'avevano introdotta negli ambienti della dissidenza che presto si trasformò in resistenza. Le sere si ritrovavano nelle cantine ad ascoltare radio B92 e la BBC fumando puzzolentissime sigarette di contrabbando e bere l'ottima birra locale ascoltando musica suonata dal vivo con chitarre, bassi e batterie recuperati chissà dove.

Anche Vladimir, che non fumava e che non poteva bere, alla fine divenne parte della banda. Grazie a Elena imparò quel minimo di serbo-croato che occorreva e ben presto si rese indipendente nelle sue interviste. Avere Elena con sé lo aiutava ad approfondire le ricerche che stava facendo ma la metteva in pericolo. Elena era ungherese, perfettamente bilingue, ma alle volte un leggera inflessione o una parola detta diversamente ne potevano mettere a rischio la sicurezza. Anche i tratti non erano angelici come quelle delle bosniache, la sua bellezza era altera.

La paranoia delle spiate si insinuando dappertutto, chi aveva un nome diverso, un accento strano o una faccia che poteva esser d'altrove, era sempre salutato o guardato con sospetto. Elena era alta, bionda e con gli occhi azzurri. Da piccola in Vojvodina giocava a pallavolo e il fisco sportivo le era rimasto. Faceva di tutto per non mettersi in mostra.

La piccola Samra adorava la cugina maggiore. I suoi genitori erano morti in un incidente stradale e la Famiglia Futog l'aveva adottata. Elena, che all'epoca aveva poco più di 20 anni, le faceva da madre, le parlava in serbo-croato, o in bosniaco come bisogna dire, ma quando poteva le parlava in ungherese. Era diventata la loro lingua segreta. Anche Vladimir aveva una bis-zia di origine ungherese ma non iugoslava, i suoi antenati von Haasz provenivano dalla Slovacchia.

La vecchia zia Ilonka era scappata in Inghilterra dopo il 1956 e, per quanto schiva e alcolizzata per la disperazione a seguito della fuga, aveva preso Vladush in simpatia e gli parlava sempre in ungherese. Gyere ide, vieni qua, gli echeggiava ancora come imperativo affettuoso. Quando andava a trovarla la zia non lo salutava mai, lo voleva subito al suo fianco per raccontargli storie mezze in tedesco mezze in ungherese, e alla fine in inglese, di un mondo che non esisteva più, dove la zia era bella, era ricca, era viziata, andava a ballare, andava in motocicletta, giocava a tennis colle amiche e dove gli ungheresi non dovevano piegarsi a parlare lo slavo in pubblico.

La fuga l'aveva fatta diventare visceralmente anti-comunista e anti-skava, e Vladush era cresciuto anti-comunista, o almeno quando era dalla zia. Quando lei morì a quasi 90 anni, Vladimir decise di imparare il russo per combattere chi aveva ridotto in povertà i suoi antenati von Haasz mezzi nobili e mezzi di origine ebraica.

Gyere ide, gli disse Nino non appena Vladimir si alzò. Anche Nino era rimasta sempre affascinata dalla storie che la cugina Elena le raccontava per addormentarla e della vita prima della guerra in Vojvodina, racconti che echeggiavano a tavola davanti a un gulas fumante o a una palacsinta con la marmellata di albicocche e semi di papavero. 

Elena un giorno scomparve. Qualcuno informò la famiglia che era stata portata, anzi deportata, al campo Manjača vicino a Banja Luca. Fu Vladimir a scoprire che invece Elena era stata fucilata in un bosco durante una rappresaglia da parte di un gruppo di paramilitari trafficanti di armi legati alle terribili tigri di Arkan. Un boscaiolo disse a Vladimir, che tutti pensavano avesse una storia con Elena, che una banda di serbo-bosniaci aveva violentato Elena prima di fucilarla legata a Moh, un suo compagno di università col quale stava portando informazioni dell'intelligence canadese a un gruppo di resistenti bosniaci proprio nella zona di Banja. Anche Mohamed fu umiliato e torturato. Nessuno dei due parlò. Di nessuno dei due fu mai trovato il corpo. Erano anni di esecuzioni sommarie e fosse comuni.

Col suo "vieni qui", Nino aveva invitato Vladimir a nascondersi in un un portone della città vecchia perché stava passando un gruppo di russi che poco le piaceva e che il giorno prima era andato a far shopping nel negozio di moda Adom dove Nino lavorava da qualche tempo. Adom, nel centro di Tiblisi, era una delle mete preferite di un certo turismo in Georgia. Non solo i prezzi erano migliori di Istanbul, Beirut, Mosca, Baku o Tashkent, ma nel negozio si trovavano le collezioni di stilisti emergenti che provenivano da parti del mondo conosciute solo per guerre fratricide ma che avevano iniziato a sfilare a Parigi. La sensazione fashionista del momento era il collettivo franco-bosniaco Agarovich.

Nino non aveva mai capito quale fosse la relazione di Vladimir con Elena. Sapeva che Igor e Moh erano gli unici amici maschio che Elena avesse. Aveva visto la cugina carezzare teneramente le sue amiche, ma non l'aveva mai vista abbracciare un uomo. Per quanto fossero sempre insieme, Elena e quel giornalista che capiva la loro lingua segreta, in pubblico erano molto distanti. Samra era troppo piccola per capire molte delle cose terribili che la circondavano. Quando la guerra divenne sempre più violenta e spietata, Samra smise di parlare. Degli ultimi giorni di bombardamenti a Sarajevo ricorda solo che il suo amico inglese le salvò la vita, e questo le bastava.

Da quando era stata informata che Vladimir fosse in città, Nino immediatamente aveva capito che quella visita non era per "rest and recration". Diffidando anche lei da sempre dei russi, i protettori dei serbi che ammazzavano, pensò che fosse più prudente non farsi vedere dai suoi clienti - o da chiunque altro - con quello strano tipo in pubblico.

Vladimir aveva barba e capelli lunghi, tinti di scuro. Sembrava più giovane dei quasi 50 anni che aveva. Jeans, anfibi, giacca sahariana grigioverde e una kefia afgana al collo che lo facevano sembrare più grosso di quanto in effetti fosse. Gli ultimi viaggi e la stanchezza iniziavano però a riconnetterlo con la sua età e bioritmi.

Nino gli lasciò un biglietto del negozio e lo invitò a passare a prenderla più tardi.

Viszontlátásra.

A dopo.