Sunday, September 13, 2015

Capitolo 1 first draft

Tiblisi non era mai stata così calda in ottobre. La gente sedeva ai caffè senza il cappotto, i ragazzi uscivano da scuola correndo in calzoncini corti e le ragazze andavano in giro con gonne sempre più corte e tacchi sempre più a spillo. Le strade erano bloccate da un ingorgo infinito, insolito per quell'ora del giorno. O così almeno pareva a Vladimir Ibramirov mentre s'incamminava verso la parte vecchia della città alla ricerca d'un posto tranquillo da cui poter osservare lo scorrere pacifico del fiume Kura.

L'ultima volta a Tiblisi c'era stato di passaggio nell'estate del 2000, ma la Tiblisi che aveva dentro, nel cuore e nelle cicatrici, era quella della guerra di 20 anni prima, quando si chiamava Igor Phrotas ed era stato mandato nel Caucaso per seguire da lontano Zviad Gamsakhurdia.

Quel che doveva essere un aiuto del "mondo libero" alla costruzione di una Georgia democratica dopo l'indipendenza dall'Unione sovietica si rivelò un fondamentale aiuto al ri-insediamento della vecchia guardia post-sovietica a Tiblisi e in tutte le altre repubbliche resesi indipendenti.

Da studente di lingua russa a Oxford, Vladimir aveva scoperto il musicista e poeta georgiano Merab Kostava che nel 1977, per la sua vicinanza politica col dissidente Gamsakhurdia, era stato arrestato e spedito in Siberia da un ambizioso Segretario del partito comunista georgiano: Eduard Shevardnaze.

Le parole e le melodie di Kostava lo avevano sempre affascinato e commosso e fatto appassionare al Caucaso. Quando viveva negli Stati uniti aveva imparato a definire i bianchi con l'espressione politicamente corretta "caucasici" e, una volta arrivato nel Caucaso, capì perché: con la sua centenaria storia di guerre, violenze odii, miti, leggende e intrighi transnazionali quelle valli racchiudevano tutto l'Occidente.

Dappertutto, ma in Georgia in modo particolare, facce, suoni e pietre raccontavano la storia di chi era pronto a immolarsi per vivere finalmente libero. Caucasian voleva dire uomo libero.

Da anni Vladimir viveva col pensiero di esser stato complice di un grande disegno contrario al motivo per cui era stato inviato in quella regione. Quello stesso Shevardnaze, che scientificamente aveva scalato la gerarchia sovietica fino ad arrivare a esser il ministro degli esteri di Mikhail Gorbaciov divenendo l'ambasciatore della glasnost e della perestrojka nel mondo, riuscì a far cambiare molte cose nella sua Georgia perché strutturalmente non cambiasse quasi niente. Grazie ai suoi trascorsi di capo della diplomazia sovietica negli anni finali della Guerra fredda, Shevardnaze aveva messo insieme una complicatissima rete di sostegni e trappole incrociate per creare il "pericolo Gamsakhurdia" che non poteva che esser gestito che con la forza e i tipi metodi oscuri dello stato di polizia.

Tra il 1990 e il 1993 Vladimir aveva passato settimane in Abkhazia, tra Sokumi e il fiume Kodori, sconfinando poi in Cecenia, per tallonare gli uomini di Gamsakhurdia che cercavano rifugio tra i sostenitori di Džokhar Musaevič Dudaev a Urus-Martan. La sua missione era quella di informare il quartier generale sui movimenti indipendentisti anti-Mosca che stavano organizzandosi a nord e sud del Caucaso all'indomani della dissoluzione dell'Unione sovietica. Vista l'importanza geo-strategica di quei monti, il "mondo libero" non voleva trovarsi di fronte a una regione troppo libera e, quindi, troppo instabile - il vero terrore per l'Occidente.

Occorreva osservare da vicino gli intricatissimi intrecci di alleanze incrociate tra quelli che, insoddisfatti della dissoluzione dell'URSS, si stavano ribellando tutti insieme alla nuova Mosca di Yeltsin. Alleanze dove, ancor di più che durante la Guerra fredda, il nemico del mio nemico diventava mio amico, anche se solo per qualche mese prima di cambiare repentinamente idea e vendersi o al migliore offerente o al peggior ricattatore.

Grazie a quella sua quotidianità con le lotte per la libertà, gli fu presto chiaro quale fosse la trama che una mano esterna con potenti alleati in giro per il mondo stesse tessendo ai danni delle aspirazione di milioni di persone che nel Caucaso volevano vivere a casa propria una vita libera, nella propria lingua e con le proprie tradizioni.

Quando all'inizio del 1994 fu richiamato in Europa perché al quartier generale si accorsero che stava divenendo troppo prossimo alle lusinghe rivoluzionarie, Vladimir capì che se non avesse obbedito immediatamente non avrebbe più abbandonato quelle terre divenendone prigioniero. Capì che ci sarebbe rimasto, ma per sempre, proprio come le centinaia di amici che aveva incontrato durante la sua permanenza sulle spiagge sassose di Kelakhuri sul Mar nero, dove si risposavano dopo le notti passate in giro sui monti abkazi, oppure a Girevi nelle valli del fiume Alazani, vicino al confine colla Russia, quando cercavano rifugio nei resti della vecchia fortezza abbandonata per fuggire alla Guarda nazionale georgiana che si azzardava a inseguire gli insorgenti dopo averli messi in fuga.

Camminando verso la città vecchia in quel tiepido ottobre, si accorse che in 20 anni la Tiblisi che lo circondava era cambiata radicalmente. Tutta la Georgia, tutto il Caucaso, erano cambiati radicalmente. Almeno in superficie. Ed era proprio della superficie che questa volta doveva interessarsi. Niente più intrecci, intrighi, depistaggi o vita sui monti. Questa volta doveva aspettare un contatto per uno scambio e poi tornare definitivamente al quartier generale.

"Gaspadin Vladimir Ibramirovich?"
"Da"
"Zdravstvuyte, menya zovut Nino Gungadze"
"Bylo priyatno s vami poznakomit’sya"
"Mi avevano detto che parlassi russo ma non pensavo così"
"didi madloba. Anche lei"

Mora con i capelli lunghi, alta, con una voce profonda, Nino Gungadze non era vestita come le altre ragazze georgiane.

L'ultima volta che Vladimir aveva visto Nino lei aveva cinque anni, era bionda e si chiamava Samra Iretbegovich. Erano entrambi sfollati a Potgodirica dopo una lunga fuga verso il Montenegro attraverso i boschi della Bosnia meridionale. Samra era rimasta orfana all'inizio della guerra iugoslava e viveva con la famiglia della cugina ungherese della Vojvodina Elena Futak, o Futog come si dovettero chiamare dopo che la polizia serba iniziò le persecuzioni.

Vladimir, all'epoca Igor, aveva conosciuto Elena a Sarajevo durante l'assedio. Era in Bosnia come giornalista ed Elena, che parlava inglese, lo aiutava come traduttrice. Arrivata in città da poco, grazie ai cugini, aveva fatto subito amicizia cogli studenti universitari che l'avevano introdotta negli ambienti della dissidenza che presto si trasformò in resistenza. Le sere si ritrovavano nelle cantine ad ascoltare radio B92 e la BBC fumando puzzolentissime sigarette di contrabbando e bere l'ottima birra locale ascoltando musica suonata dal vivo con chitarre, bassi e batterie recuperati chissà dove.

Anche Vladimir, che non fumava e che non poteva bere, alla fine divenne parte della banda. Grazie a Elena imparò quel minimo di serbo-croato che occorreva e ben presto si rese indipendente nelle sue interviste. Avere Elena con sé lo aiutava ad approfondire le ricerche che stava facendo ma la metteva in pericolo. Elena era ungherese, perfettamente bilingue, ma alle volte un leggera inflessione o una parola detta diversamente ne potevano mettere a rischio la sicurezza. Anche i tratti non erano angelici come quelle delle bosniache, la sua bellezza era altera.

La paranoia delle spiate si insinuando dappertutto, chi aveva un nome diverso, un accento strano o una faccia che poteva esser d'altrove, era sempre salutato o guardato con sospetto. Elena era alta, bionda e con gli occhi azzurri. Da piccola in Vojvodina giocava a pallavolo e il fisco sportivo le era rimasto. Faceva di tutto per non mettersi in mostra.

La piccola Samra adorava la cugina maggiore. I suoi genitori erano morti in un incidente stradale e la Famiglia Futog l'aveva adottata. Elena, che all'epoca aveva poco più di 20 anni, le faceva da madre, le parlava in serbo-croato, o in bosniaco come bisogna dire, ma quando poteva le parlava in ungherese. Era diventata la loro lingua segreta. Anche Vladimir aveva una bis-zia di origine ungherese ma non iugoslava, i suoi antenati von Haasz provenivano dalla Slovacchia.

La vecchia zia Ilonka era scappata in Inghilterra dopo il 1956 e, per quanto schiva e alcolizzata per la disperazione a seguito della fuga, aveva preso Vladush in simpatia e gli parlava sempre in ungherese. Gyere ide, vieni qua, gli echeggiava ancora come imperativo affettuoso. Quando andava a trovarla la zia non lo salutava mai, lo voleva subito al suo fianco per raccontargli storie mezze in tedesco mezze in ungherese, e alla fine in inglese, di un mondo che non esisteva più, dove la zia era bella, era ricca, era viziata, andava a ballare, andava in motocicletta, giocava a tennis colle amiche e dove gli ungheresi non dovevano piegarsi a parlare lo slavo in pubblico.

La fuga l'aveva fatta diventare visceralmente anti-comunista e anti-skava, e Vladush era cresciuto anti-comunista, o almeno quando era dalla zia. Quando lei morì a quasi 90 anni, Vladimir decise di imparare il russo per combattere chi aveva ridotto in povertà i suoi antenati von Haasz mezzi nobili e mezzi di origine ebraica.

Gyere ide, gli disse Nino non appena Vladimir si alzò. Anche Nino era rimasta sempre affascinata dalla storie che la cugina Elena le raccontava per addormentarla e della vita prima della guerra in Vojvodina, racconti che echeggiavano a tavola davanti a un gulas fumante o a una palacsinta con la marmellata di albicocche e semi di papavero. 

Elena un giorno scomparve. Qualcuno informò la famiglia che era stata portata, anzi deportata, al campo Manjača vicino a Banja Luca. Fu Vladimir a scoprire che invece Elena era stata fucilata in un bosco durante una rappresaglia da parte di un gruppo di paramilitari trafficanti di armi legati alle terribili tigri di Arkan. Un boscaiolo disse a Vladimir, che tutti pensavano avesse una storia con Elena, che una banda di serbo-bosniaci aveva violentato Elena prima di fucilarla legata a Moh, un suo compagno di università col quale stava portando informazioni dell'intelligence canadese a un gruppo di resistenti bosniaci proprio nella zona di Banja. Anche Mohamed fu umiliato e torturato. Nessuno dei due parlò. Di nessuno dei due fu mai trovato il corpo. Erano anni di esecuzioni sommarie e fosse comuni.

Col suo "vieni qui", Nino aveva invitato Vladimir a nascondersi in un un portone della città vecchia perché stava passando un gruppo di russi che poco le piaceva e che il giorno prima era andato a far shopping nel negozio di moda Adom dove Nino lavorava da qualche tempo. Adom, nel centro di Tiblisi, era una delle mete preferite di un certo turismo in Georgia. Non solo i prezzi erano migliori di Istanbul, Beirut, Mosca, Baku o Tashkent, ma nel negozio si trovavano le collezioni di stilisti emergenti che provenivano da parti del mondo conosciute solo per guerre fratricide ma che avevano iniziato a sfilare a Parigi. La sensazione fashionista del momento era il collettivo franco-bosniaco Agarovich.

Nino non aveva mai capito quale fosse la relazione di Vladimir con Elena. Sapeva che Igor e Moh erano gli unici amici maschio che Elena avesse. Aveva visto la cugina carezzare teneramente le sue amiche, ma non l'aveva mai vista abbracciare un uomo. Per quanto fossero sempre insieme, Elena e quel giornalista che capiva la loro lingua segreta, in pubblico erano molto distanti. Samra era troppo piccola per capire molte delle cose terribili che la circondavano. Quando la guerra divenne sempre più violenta e spietata, Samra smise di parlare. Degli ultimi giorni di bombardamenti a Sarajevo ricorda solo che il suo amico inglese le salvò la vita, e questo le bastava.

Da quando era stata informata che Vladimir fosse in città, Nino immediatamente aveva capito che quella visita non era per "rest and recration". Diffidando anche lei da sempre dei russi, i protettori dei serbi che ammazzavano, pensò che fosse più prudente non farsi vedere dai suoi clienti - o da chiunque altro - con quello strano tipo in pubblico.

Vladimir aveva barba e capelli lunghi, tinti di scuro. Sembrava più giovane dei quasi 50 anni che aveva. Jeans, anfibi, giacca sahariana grigioverde e una kefia afgana al collo che lo facevano sembrare più grosso di quanto in effetti fosse. Gli ultimi viaggi e la stanchezza iniziavano però a riconnetterlo con la sua età e bioritmi.

Nino gli lasciò un biglietto del negozio e lo invitò a passare a prenderla più tardi.

Viszontlátásra.

A dopo.

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